Quelle scomode verità sulla moda
L'industria della moda è la seconda più inquinante al mondo. E questo non è l'unico problema: molti brand (anche famosi) sono meno sostenibili di quanto dicono. Il mio articolo su Tustyle in occasione della Giornata della Terra.
Noi, tutte eredi di Carrie Bradshaw & c., che consideriamo lo shopping come una buona pratica per tirarci su di morale, che passiamo ore a scrollare sui siti di e-commerce, che aspettiamo i saldi con la stessa trepidazione con cui un bambino aspetta il Natale, noi consumatrici e fashion-addicted, siamo consapevoli del fatto che l'industria della moda è risponsabile del 10% delle emissioni di gas a effetto serra? Lo sappiamo ad esempio che, in media, nel mondo, un capo di abbigliamento viene gettato dopo solamente 7 utilizzi? Ci è ben chiaro che l’impronta di carbonio di un singolo paio di scarpe – come riporta la bibbia del carbon footprint How bad are bananas? di Mike Berners-Lee – può arrivare a 15 kg di CO2 equivalente? E che quella di un jeans in cotone sfiora i 19 kg di CO2e? Siamo consci del fatto che globalmente vengono prodotti circa 100 milioni di tonnellate di tessuti l’anno, ovvero quasi il doppio rispetto all’inizio degli anni Zero? Sappiamo che l’industria della moda consuma 79mila miliardi di litri di acqua all’anno (da The environmental price of fast fashion, studio del 2020) e che per produrre una sola, singola T-shirt servono 2.700 litri di acqua, ovvero l’equivalente del fabbisogno di una persona per due anni e mezzo?
In occasione dell'Earth Day 2022, sulle pagine di
Tustyle, ho scritto un pezzo in cui parlo di moda e impatto ambientale. Per realizzarlo, mi sono fatta una lunga chiacchierata con
Matteo Ward, imprenditore visionario e senza peli sulla lingua, fondatore (tra le altre cose) del brand
Wråd. Secondo lui, il problema non è solo che la moda inquina moltissimo, che compriamo tutti troppo e che compriamo male ma, tra le criticità del settore, c'è anche la questione del greenwashing. Ovvero: brand che si professano molto ecologici, ma che in realtà lo sono poco o per nulla: «Quando i brand hanno scoperto che esiste una fetta del mercato particolarmente sensibile a tematiche di ingiustizia ambientale e sociale, hanno iniziato a comunicare - a volta in buona fede, a volte in cattiva fede, il più delle volte in maniera un po' superficiale - che, acquistando i loro prodotti, i consumatori avrebbero contribuito al bene del pianeta. La verità è che nella maggior parte dei casi - lo dicono le statistiche finanziate dall'UE - questi claim sono del tutto fuorvianti. Quello che mi chiedo è: "Può un business model che si basa sulla vendita incrementale di scarpe, quando ne vengono prodotte 23 miliardi ogni anno, anche se queste scarpe sono fatte in cotone biologico, può salvare il pianeta?”. Il greenwashing ci fa credere che sia così. Sono promesse fasulle che ci fanno sprecare soldi nell'illusione di fare del bene al pianeta».
La sua idea? Una maggiore consapevolezza. «È davvero urgente è che tutti noi capiamo che dietro la parola sostenibilità oggi si nascondono realtà che sono ben peggiori di come si presentano.
Sono convinto che nessun consumatore voglia compromettere l'acqua che beve per la maglietta che ha indosso. Se lo fa, è perché nono ne è consapevole, o è vittima di una comunicazione fuorviante. La Commissione europea parla del 38% di tutti i claim sulla sostenibilità come completamente falsi. La percentuale sale al quasi 70% per claim fuorvianti», continua ancora Ward.
Se volete saperne di più, c'è Tustyle in edicola.